Approfondimento

Percorso

Bestie del Novecento. I romanzi allegorico-animalistici di Sergio Antonielli

di Marie Louise Crippa

Nel 1949 Sergio Antonielli esordì come narratore con Il campo 29 trasposizione di una vicenda storica, e solo cinque anni dopo scrisse La tigre viziosa, racconto condotto in prima persona da un animale. Dopo aver sublimato nel romanzo Il campo 29 l’esperienza vissuta nei campi di prigionia indiani durante la Seconda Guerra Mondiale, l’autore diede alle stampe la storia di una tigre che, consumata dal vizio di mangiare carne umana, perde il suo feroce istinto e acquista i sentimenti e gli affanni propri dell’uomo. Era il 1954: la scena letteraria italiana era ancora dominata da testi riconducibili all’esperienza neorealista, e il genere animalistico-allegorico aveva raramente abbando­nato i modi della favola per assumere quelli del racconto e ancora meno del romanzo. In anni in cui era impensabile e sconveniente parlare di qualcosa che fosse estraneo alla cronaca ed ambientare le vicende fuori dall’orizzonte della realtà, Antonielli scelse di dare voce e soprattutto coscienza ad una tigre.

Da questo mo­mento la sua produzione percorse il doppio filone: realistico-psicologico da una parte, allegorico-animalistico dall’altro. Al romanzo ferino – pubblicato ne «I gettoni» einaudiani – seguirono nel 1962 Il venerabile orango ed infine nel 1979 L’elefante solitario.

Nell’archivio conservato presso il Centro Apice sono attestati i processi creativi che portarono Antonielli alla scrittura di quello che potremmo definire un “bestiario” del Novecento: manoscritti, dattiloscritti, bozze di stampa, appunti e scambi epistolari con amici d’eccezione come Italo Calvino, Niccolò Gallo, Vittorio Sereni ed Elio Vittorini. È soprattutto il primo romanzo della serie a presentare il processo creativo più articolato. Un datti­loscritto intitolato La tigre viziosa e datato 1 maggio 1953 attesta una stesura diversa da quella che vide la luce per i tipi Einaudi: la voce narrante che dava inizio alla narrazione non era quella della tigre, bensì quella di un uomo che, suggestionato da una melodia indiana e dal vago ricordo che questa gli evoca, cadeva in un sogno ad occhi aperti. Nella dimensione onirica lo spazio prendeva le fattezze di una giungla ed il protagonista si ritrovava calato nei panni di una tigre.

Questo primo stato di scrittura non solo suggerisce spunti di riflessione critica sulle strategie compositive e stilistiche adottate da Antonielli per questo romanzo, ma svela anche le ragioni morali che sottendono i suoi lavori futuri. Nell’opera del 1953 la narrazione si sviluppava su un doppio livello diegetico ed aveva inevitabilmente una diversa strutturazione: una vera e propria cornice nella quale la voce narrante umana guidava il lettore fra le ragioni del suo racconto e regalava al critico una significativa dichiarazione di poetica:

«Questa della tigre, dunque, è una storia che m’è venuta in mente. Non posso fare a meno di raccontarla, perché altrimenti non sarebbe una storia, e io non sarei uno di quei disgraziati a cui non senza conseguenze vengono in mente le storie. Una volta venuta, subito ho sentito che non sarei stato in pace se non l’avessi lasciata vivere ol­tre il suo inizio, col suo svolgimento, con la sua fine. […] Ritorniamo al punto, perciò, e conveniamo in questo: lungo un fiume dell’India, in una notte di luna, una tigre segue un uomo. La tigre sono io, o me­glio, per addensare un po’ d’atmosfera indiana, la tigre ero io.»

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L’assunzione della voce e del punto di vista dell’animale si rivela indubbiamente una scelta audace ma cela anche il pudore espressivo di chi si impegna nello sforzo tenace di arginare le spinte dell’autobiografismo. Nonostante il tono ed i personaggi richiamino una dimensione allegorica e fantastica, l’ambientazione indiana tradisce un rapporto, se pur vago, con il passato dell’autore e si rivela sfondo memoriale. Ed infatti, nel primo dattiloscritto, Antonielli scrive: «Che talvolta un ricordo confuso ci dia l’impressione come d’un ritorno da una passata esistenza, è perfettamente vero, ed è anzi un caso banale. Ma c’è di mezzo l’India».

Se in un romanzo come la Tigre viziosa la maschera animale si era offerta all’autore come filtro della propria soggettività lungo la ricostruzione di una vicenda tutta interiore, nei romanzi successivi la voce animale assunse dimensioni sempre più corali.

Antonielli, Sergio

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Ne Il venerabile orango, dove il racconto è affidato ad un piccolo scoiattolo, l’intreccio va ben oltre i processi di una coscienza: la foresta che fa da scenario è stata devastata da una guerra nucleare e fra i sopravvissuti domina una ristretta oligarchia di oranghi e serpenti dispotici che, appellandosi al mito di un fatiscente e latente Venerabile Orango, esercitano i peggiori soprusi e minano alla libertà del popolo. Antonielli fece del mondo animale un vero e proprio osservatorio sulla condizione umana, scandagliata in tutti i suoi aspetti, psicologici, sociali, e politici. Gli anni in cui venne pubblicato il romanzo ed il sarcasmo con cui Antonielli ritrasse alcuni personaggi corroborano una lettura allegorica molto vicina a fatti riconducibili alla storia recente, se non all’attualità dell’autore. Gli scritti preparatori e gli appunti conservati nell’archivio testimoniano lo studio particolareggiato delle figure e dei tratti distintivi di alcuni animali, simbolo di alcuni protagonisti politici e religiosi del Novecento. Fra le carte sopravvissute, importanti per l’economia del romanzo si rivelano le annotazioni prese da Antonielli intorno al personaggio del Papa Pio XII e un racconto rimasto inedito datato 1968 e dal titolo L’Orango B. (bianco-buono), che fa un non troppo velato riferimento al successore, Giovanni XXIII.

Il discorso allegorico di Antonielli culmina ne L’elefante solitario (1979) dove trovano perfetta sintesi dimensione esistenziale e dimensione civile. I dattiloscritti conservati nell’archivio registrano l’impegno profuso dallo scrittore nel conciliare il viaggio interiore dell’ex capobranco, votatosi ad una vita da eremita ed oramai prossimo alla morte, e il viaggio fisico compiuto fra le macerie di un mondo prossimo alla rovina. Gli interventi che Antonielli riportò sui dattiloscritti puntavano ad accentuare soprattutto il carattere mostruoso di alcuni animali che il protagonista elefante incontra lungo il suo cammino e che lo distolgono dal suo iniziale proposito, richiamandolo ai suoi doveri politici e civili. L’immaginazione di Antonielli disegnò lo sfondo di una foresta dove i fiori assumono dimensioni surreali e le specie animali appaiono affette da inspiegabili ed incurabili morbi.

Si conclude così la parabola narrativa di Antonielli: un bestiario che prende le mosse dal soliloquio di una tigre per giungere all’urlo di un elefante.

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