di Alessandro Terreni
la mia poesia, continuo
è un fare non è un essere, o l’essere,
se proprio lo volete, per me è un fare…
(Invasioni, 1984)
Poeta d’avanguardia e onirico narratore; palombaro dell’io e intellettuale pronto all’intervento; utopista apocalittico e operatore editoriale… Le molteplici facce di Leo Paolazzi/Antonio Porta, che convivono tra i documenti del centro Apice, ci restituiscono una figura di straordinaria complessità intellettuale, capace di conciliare, nella sua multiplanare operatività, elementi all’apparenza contraddittori che si fanno però, nella concretezza del suo fare, naturalmente complementari. Nell’attività portiana, infatti, la sperimentazione espressiva – poetica e narrativa (i Novissimi, il Gruppo ’63) – convive con la lucida comprensione del mercato editoriale (gli incarichi in Bompiani e in Feltrinelli); la riflessione sull’evoluzione di costumi e linguaggi (su “Alfabeta” o sul “Corriere della Sera”) si accompagna alla concreta organizzazione di nuove proposte culturali (Milanopoesia); l’attenzione per le manifestazioni più intellettuali della contemporaneità (le recensioni ai nuovi poeti, le riflessioni sulla postmodernità) non inibisce la passione per i saperi più materiali (“La Gola”, gli articoli su cibo e cucina).
Una così fitta e poliedrica produttività intellettuale non può essere compresa appieno se non nel contesto che ne fu straordinario teatro: quella Milano che, tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Ottanta del Novecento ricopre, nel paese in rapida modernizzazione, il ruolo cruciale di centro dinamico del mutamento socio-economico, presto indirizzatosi, a Milano prima che nel resto d’Italia, verso la complessiva terziarizzazione. Milano è, da questo punto di vista, non solo capitale finanziaria del paese ma anche, da subito, capitale dell’editoria: libraria e periodica, di rinnovata tradizione e di nuova fondazione. E più in generale diventa – e ne mantiene ancora oggi il ruolo – capitale della comunicazione, pubblicitaria e televisiva soprattutto, centro nevralgico – insieme sismografo e volano – di nuovi consumi e stili di vita, di tendenze culturali e politiche, di modi diversi di stare insieme. Una travolgente modernità urbana che trova in Porta un acuto e sensibile interprete, capace di interrogarla, di interpretarla, di viverla nell’arco dell’intensissima carriera che, lungo un trentennio, lo pone al centro di una rete di importanti relazioni professionali e umane, testimoniate dal ricco epistolario con alcuni dei più rilevanti protagonisti di quella ricca stagione culturale.
Milano e Porta, dunque: una polarità indissolubile. E intensamente voluta, nonostante l’anagrafe: ricordiamo, infatti, che Leo Paolazzi non era di origine milanese, essendo nato a Vicenza, nel 1935, da una benestante famiglia cattolica di provenienza tridentina. Il padre Pietro – che nel 1956 fonderà a Milano, con Edilio Rusconi, la Rusconi e Paolazzi editore – era a sua volta figlio di Bonfilio, ex deputato popolare del parlamento austroungarico (aveva ceduto, nel 1911, il seggio al collega De Gasperi), cattolico devoto al punto da prendere i voti sacerdotali dopo i settant’anni, una volta vedovo. Benché trasferito prestissimo a Milano (nel 1936), il piccolo Leo cresce allora in un clima di rigoroso tradizionalismo: riceve la cresima dal cardinale Schuster, frequenta una prestigiosa scuola di gesuiti, si laurea in Lettere, nel 1960, all’Università cattolica.
Dopo aver firmato come Leo Paolazzi le raffinate poesie di Calendario (1956), nel 1960 pubblica però una plaquette, dal titolo La palpebra rovesciata, che apre la stagione sperimentale della sua poesia: tappa cruciale del percorso umano e intellettuale del venticinquenne Leo, il volumetto inaugura non solo un nuovo fare poesia ma anche l’uso pubblico di quello pseudonimo, Antonio Porta, con cui lo scrittore si proporrà negli anni successivi ai suoi lettori. Un atto di nascita, dunque, letterario ed editoriale, nel quale, però, non si menzionano assolutamente le origini vicentine dell’autore e, anzi, la breve nota biografica di accompagnamento al testo dichiara, esplicitamente, che Antonio Porta è “nato a Milano”.
La scelta di Milano, come allora si capisce, riveste un ruolo fondativo nella riconfigurazione dell’identità, personale e artistica, dell’uomo e del poeta. Una nuova identità che trova, nella milanesità fattiva e laica, un suo cruciale tratto distintivo, come lo pseudonimo stesso vuole indicare. Il nome di Antonio Porta, come si legge nell’intervista del dicembre 1987 su “Testuale”, richiama infatti apertamente l’omonimo Carlo della Ninetta, il poeta milanese da Porta ammirato per l’espressionismo linguistico e il realismo anche crudo dei suoi versi. Un’ammirazione che significa adesione alla linea lombarda – come la chiamava il suo maestro Luciano Anceschi – di una poesia che si vuole “in re”, cioè “nella cosa”, come Porta dichiara nello scritto teorico che accompagna La palpebra rovesciata, e di un lavoro intellettuale inteso come strumento di penetrazione nel reale, di svelamento del tragico e del vero dietro i fenomeni (il vero di ascendenza decisamente manzoniana). La scelta della poesia assume così, tra gli altri significati, anche quello di una scelta della complessa modernità urbana, di un’apertura – come lo stesso significato di “porta” non può non richiamare – alla ricchezza contraddittoria e problematica della realtà storica contemporanea, costantemente interrogata da un’inesausta prassi linguistica in continuo confronto con la dialettica materiale delle cose.
Dalla Palpebra fino alle poesie postume di Yellow (2002), della letteratura di Porta si sa molto – anche se molto ancora si può scoprire: la poesia e la narrativa hanno ricevuto, oltre all’affetto dei lettori, l’attenzione degli studiosi; un po’ meno il teatro, che forse si sta riscoprendo. Ma parlavamo di Porta e di Milano: dei giornali, delle riviste, della comunicazione e dell’editoria… ecco allora che la firma di Antonio Porta contrassegna una folta produzione critica, ora militante ora più teorica e di riflessione sulla poesia, una produzione ordinata e conservata proprio ad Apice. E c’è poi il Porta redattore e animatore di testate come “il Verri”, “Malebolge”, “Quindici”, negli anni Sessanta, e poi fondatore di “Alfabeta” e “La Gola” negli anni Ottanta. E il Porta più giornalistico, attento al costume e ai mutamenti di stile di vita, che collabora con “Sette” del “Corriere della Sera” e con “L’Europeo”: un’ampia e acuta produzione culturale che si fa, per Antonio Porta, concreto progetto e lavoro, quotidiano “mettersi a bottega” nel concreto del mondo.
Lo attestano anche i suoi incarichi editoriali, come dire “dietro le quinte”: dal ’56 al ’67 per Rusconi e Paolazzi si è occupato dei periodici “Gioia”, “Gente”, “Rakam” e del “Corriere dello Sport”; nel 1968 è direttore amministrativo e assistente alla presidenza di Bompiani; nel 1972 è direttore generale di Bompiani, Sonzogno, Etas libri. Nel 1977 assume un ruolo dirigenziale nella casa editrice Feltrinelli, lasciata nel 1981. E riprende l’attività manageriale nel 1985, nel consiglio d’amministrazione della Fonit Cetra. È un’attività organizzativo-manageriale che, congiuntamente agli “interessi che ne hanno fatto un fautore tenace del coinvolgimento politico e civile” (così recita nel 1989 la motivazione dell’Ambrogino d’oro alla sua memoria), Porta ha svolto con l’acume di chi sapeva che la cultura non va rinchiusa nell’hortus conclusus di un umanesimo sulla difensiva, ma che può essere strumento di operatività e di lavoro, di comprensione e intervento nella modernità. Lo attestano, tra le molte altre cose, anche le sue riflessioni sulla pubblicità, da Porta osservata con la sottigliezza del poeta e la praticità dell’uomo che lavora. Che in Porta, milanese, sono, sotto sotto, due facce dello stesso fare.