Atti del Convegno
È uscito il volume degli atti del convegno internazionale, Il fotogiornalismo negli anni Settanta (Photojournalism in the Seventies): Il fotogiornalismo negli anni settanta. Lotte, trasformazioni, conquiste, a cura di Raffaele De Berti e Irene Piazzoni, Milano, SilvanaEditoriale, 2020.
Il 4 e 5 dicembre 2017 si è tenuto presso l’Università Statale di Milano il convegno internazionale Il fotogiornalismo negli anni Settanta (Photojournalism in the Seventies), organizzato dal Centro Apice, che possiede, tra gli altri, il ricchissimo archivio fotografico del quotidiano “La Notte”.
Il convegno ha chiamato a raccolta studiosi di diversa matrice – storici della fotografia e delle arti visive, storici del giornalismo, esperti di comunicazione visiva, nonché un grande fotoreporter come Uliano Lucas– provenienti da diversi atenei e centri di studio italiani e stranieri, tra i quali Martin Conboy e Adrian Bingham (Università di Sheffield), Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Gabriele D’Autilia (Università di Teramo), Tatiana Agliani (Macof, Centro della fotografia italiana), Enrico Menduni (Università di Roma Tre), Christian Uva (Università di Roma Tre), Pierre Sorlin (Università di Paris III), Michele Guerra e Paolo Barbaro (Università degli Studi di Parma-CSAC), Elena Mosconi (Università di Pavia) Adolfo Mignemi (Università di Modena e Reggio Emilia), Andrea Sangiovanni (Università degli Studi di Teramo), Roberta Valtorta (Centro Bauer, Milano) che hanno affiancato i docenti della Statale (Irene Piazzoni, Raffaele De Berti, Cristina Formenti, Rossella Menegazzo, Maria Canella) in un dibattito teso a indagare anche sul ruolo della fotografia come fonte e documento storico.
Il pensiero filosofico fin dalla nascita della fotografia ha tentato di comprendere come questo dispositivo abbia modificato il rapporto sensibile tra l’uomo e le cose.
Probabilmente è l’effetto di “derealizzazione” il punto intorno al quale si concentra la riflessione filosofica in merito alla trasformazione del rapporto tra uomo e mondo portato dall’immagine fotografica. Questo effetto di derealizzazione è stato poi concepito come possibilità di un potenziamento della conoscenza sensibile o come perdita della realtà, come chance emancipativa o come processo simulatorio in cui il concetto stesso di storia si dissolve. Nella relazione sono state mostrate alcune delle linee di tendenza del dibattito filosofico della fotografia con riferimento agli anni Settanta, nel tentativo di mostrare quale sia l’eredità di quel dibattito per noi oggi.
Il decennio indagato, iniziato con il Sessantotto, è ricchissimo sotto molti aspetti: per gli eventi che lo attraversarono, per le trasformazioni profonde della società, per i suoi nuovi protagonisti – le donne e i giovani – , per le proteste politiche e i fermenti internazionali.
Gli anni Settanta sono un periodo frammentato e convulso, scandito da fasi brevi e quindi non inscrivibile in un’unica categoria periodizzante. Anche la fotografia di quegli anni è difficilmente identificabile al di fuori della semplificazione canonica di “fotografia dei movimenti”: essa è piuttosto il risultato di un fenomeno di lungo periodo, in cui si può identificare un mainstream visuale della grande stampa popolare, che traghetta l’italiano del boom dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, e una fotografia “impegnata” molto articolata al suo interno, che a partire dallo sguardo “umanista” del fotogiornalismo storico giunge a una identificazione con le istanze della contestazione. A questo si deve aggiungere una frammentazione del mestiere dovuta alle trasformazioni dell’industria culturale e l’affermazione di un individualismo fotografico che sembra in contraddizione con il collettivismo dei tempi.
Sono gli anni Sessanta, fino al 1968, il vero terreno di coltura della trasformazione della fotografia giornalistica, anni che non hanno ancora conosciuto le nuove forme della politica. Di conseguenza, forse l’aspetto più rilevante della fotografia degli anni Settanta non è quello politico, ma uno sguardo nuovo sulla società che è allo stesso tempo erede di quello del fotogiornalismo storico.
Anche la fotografia dei movimenti del resto è una categoria a sua volta piuttosto indefinita. Se l’immagine è al servizio della lotta, quanto la fotografia è stata usata come pura documentazione mimetica e quanto il suo uso ha comportato un discorso sulla forma? Certamente il passaggio dallo spontaneismo sessantottesco all’irrigidimento ideologico successivo non ha giovato allo sviluppo di una fotografia chiaramente definibile nell’ambito dei movimenti.
Per un’analisi dei media è importante intendersi sulla periodizzazione, a partire da quella della “grande storia”: prima del 1968 si manifesta una cultura giovanile estremamente vitale che viene nel complesso sottovalutata dalla stampa popolare e dalla fotografia; seguono gli “anni 68”, cioè il breve periodo di entusiasmo collettivo che assume forme culturali e politiche e tenta la fusione con il movimento operaio; ma già tra il 1973-74 cala la cortina della violenza, i movimenti di irrigidiscono in forme politiche spesso dogmatiche, e lentamente si passa dal collettivo al “personale”; la deriva terroristica accelera il passaggio (o forse facilita il ritorno) a un disimpegno che presto diventa ossessione per un benessere più o meno reale. È in questo contesto che va analizzata anche la fotografia di informazione.
Negli anni Sessanta il giornalismo illustrato, specie nella sua variante rappresentata dai settimanali a rotocalco, rappresenta la forma mainstream della comunicazione per immagini dell’attualità e, senza soluzione di continuità, delle sue varianti (sport, gossip, celebrities, inchiesta, turismo esotico, etnografie ecc.).
Questa centralità è sfidata negli anni Settanta dalla televisione. Solo allora infatti il medium televisivo acquista la capacità di trasmettere facilmente rappresentazioni per immagini degli eventi, anche in diretta, grazie alla semplificazione degli apparati di produzione e trasmissione (ENG, Electronic News Gathering), ma anche – per quanto riguarda l’Italia – per un qualche “disgelo” dell’impostazione dei telegiornali, ora condotti da giornalisti e non da annunciatori, meno lontani dal paese reale, e in qualche modo toccati dalle novità politiche e sociali del periodo, che cerca “equilibri più avanzati” (Aldo Moro) oltre il centro-sinistra. Inoltre la diffusione dalla TV ha ormai raggiunto proporzioni ragguardevoli.
Il passaggio non è indolore. Ne risentono più i settimanali che i quotidiani (che affidano il loro messaggio ancora prevalentemente alla parola; la foto, anche la più drammatica, è un paratesto). Tra i settimanali i meno colpiti sono quelli che hanno, o adottano, il formato dei newsmagazine, come l’Espresso e Panorama. C’è uno spazio che è ancora relativamente vuoto, quello dell’approfondimento giornalistico delle notizie più rilevanti e durevoli e dell’inchiesta sul campo: un respiro lungo che meno si addice al giornalismo del quotidiano e che in televisione (in questo decennio soltanto la RAI) è il più esposto a censure interne anche per il suo carattere di materiale preparato e registrato in anticipo, a cui le news riescono a sfuggire. Questo spazio tende a colorarsi di una identità politica, generalmente di stampo progressista, sia pure meno direttamente correlata a un singolo partito, e talvolta ad assumere un tratto e un impostazione militante. Ciò è particolarmente evidente nella figura dei fotografi, spesso freelance, politicamente schierati. Proprio questa militanza permette loro di cogliere tematiche interessanti per la testata e dà loro i contatti e i riferimenti necessari per trasformarle in reportage. Di qui, come sarà meglio dettagliato nell’esposizione, alcune delle prove più interessanti del periodo sia da un punto di vista storiografico che estetico.
Se si considera il fotogiornalismo dal punto di vista dei fotoreporter, vale a dire come un lavoro che, lontano dall’illustrare semplicemente un testo scritto, è in sé la presentazione autonoma e completa di una situazione, dobbiamo ammettere che l’esperienza francese, dopo un inizio brillante, si è precocemente insabbiata.
La stampa, negli anni Cinquanta, era uno sbocco secondario per la fotografia, il ritratto, la foto d’arte, il paesaggio erano molto più apprezzati e proficui. Nel 1967 un gruppo di giovanni professionisti, impressionati dai risultati attenuti dall’agenzia Magnum, crearono Gamma, una cooperativa gestita dai suoi membri, il cui oggettivo era la promozione del reportage fotografico.
I settimanali non erano entusiasti, il debutto sarebbe stato difficile senza “gli eventi di Maggio”. Occupati ad organizzare dibattiti e manifestazioni nelle università occupate, gli studenti non avevano né il tempo né la voglia di fotografare e professionisti non erano disposti a rischiare le loro macchine nelle manifestazioni stradali. I cooperatori di Gamma beneficiarono di un monopolio di fatto che nessuno contestò e diffusero una versione degli eventi.
Il fatto maggiore del ’68 francese fu l’interruzione spontanea del lavoro in centinaia d’imprese, lo sciopero di dieci milioni di operai e la paralisi del paese durante tre settimane. Non potendo entrare nelle fabbriche, i fotografi ripiegarono sulla rivolta studentesca della quale proposero un’interpretazione visuale, trasformarono una pseudo guerriglia urbana in un confronto simmetrico tra due forze, polizia contro adolescenti, con una certa insistenza sulla brutalità delle forze dell’ordine.
Il lungo sciopero, il più lungo che la Francia abbia mai conosciuto, l’occupazione delle università, le manifestazioni stradali avevano fortemente impressionato l’opinione pubblica, le fotografie di Gamma costituirono al medesimo tempo un ricordo e una storia della vicenda, e fecero ugualmente conoscere l’agenzia che, negli anni successivi, produsse importanti reportage internazionali.
Il pubblico si stancò rapidamente di servizi su paesi lontani e terribili drammi umani, i settimanali si volsero verso argomenti più prossimi e meno perturbanti, il fotogiornalismo declinò rapidamente a partire della fine degli anni Settanta.
Un momento di snodo, dunque, di metamorfosi, di crisi e cambiamento, e allo stesso tempo una fase fecondissima per la sperimentazione nei campi delle arti, della comunicazione visiva, dell’informazione e di quella che fu definita “controinformazione”.
Con il ’68 nasce una fotografia che non si limita a documentare avvenimenti e aspetti degli anni della Contestazione, ma che fa propri nella sua storia, nelle sue scelte, nei suoi metodi molti degli assunti del movimento antiautoritario, tanto da far parlare di una fotografia “militante”, di un ’68 della fotografia. L’intervento ne ha analizzato le caratteristiche nel contesto della riflessione sui mezzi di comunicazione che attraversa il periodo.
Attraverso una selezione di immagini del periodo della Contestazione studentesca e operaia, l’intervento ha proposto una testimonianza sul clima di quegli anni, sul ruolo della fotografia nell’informazione e sull’urgenza di affermare una fotografia che si facesse interprete delle istanze del movimento e voce della realtà sociale del proprio tempo.
L’intervento si è concentrato su due “casi fotografici” che hanno fortemente contribuito a contraddistinguere prima di tutto sulla stampa, e poi in una galassia mediatica via via più ampia, l’immaginario degli anni Settanta in quanto “anni di piombo”. Il riferimento va agli scatti di Ilio Galletta relativi all’omicidio di Alessandro Floris (26 marzo 1971) compiuto a Genova dal “Gruppo XXII Ottobre” – considerati iconicamente l’origine dello stesso terrorismo rosso in Italia – e a quelli, ancor più famosi, del 14 maggio 1977 a Milano (gli autonomi con la pistola in via De Amicis immortalati da Paolo Pedrizzetti e Dino Fracchia). Si tratta di due esempi che si prestano idealmente a essere affrontati nella prospettiva “informazione/controinformazione”. Da un lato infatti essi furono subito amplificati dalla stampa “borghese” (da “Il Giorno” a “l’Espresso”) nella direzione di un’inscrizione dei loro tratti iconici peculiari all’interno di un immaginario di violenza di stampo cinematografico, di matrice prettamente western e poliziesca; dall’altro, come risposta a tale interpretazione, queste immagini furono oggetto di articolate controanalisi operate, in un caso, dal Laboratorio di Comunicazione Militante di Milano e, nell’altro, da Pio Baldelli sulle pagine di “Lotta Continua”. Ne emerge sul piano della cultura visuale di quegli anni un “conflitto ermeneutico” che si fa testimonianza di una più generale e non riconciliabile opposizione tra Potere e Contropotere.
La stampa ne fu protagonista e testimone e interprete, anche attraverso l’immagine fotografica. Quotidiani, settimanali, stampa popolare, riviste culturali, riviste politiche, secondo prospettive e sguardi spesso diversi, trasmisero uno spaccato di quella realtà multiforme e in movimento. La fotografia rifletteva e documentava la cronaca, il terrorismo, la violenza politica, le proteste sindacali, le manifestazioni dei giovani, la nuova immagine della donna, le trasformazioni del paesaggio e le lotte per la difesa dell’ambiente, i nuovi modelli divistici e le star del rock.
Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta si assiste, come è noto, al passaggio dal rotocalco illustrato di grande formato, che dava molto spazio ai reportage fotografici, al formato ridotto dei cosiddetti “newsmagazine”, che in molti casi finisce per sacrificare la fotografia in uno spazio più ridotto, anche in dimensioni.
Se si prende come esempio “Epoca” in un anno cruciale come il 1969 si osserva come i servizi fotografici realizzati da fotoreporter come Mario De Biasi, Giorgio Lotti, Sergio Del Grande o Walter Bonatti, spazino dalla cronaca politica e nera ai reportage naturalistici e di viaggio alle inchieste sociali. Nel giro di pochi anni, molti reportage di questo altissimo livello fotografico non saranno tanto rappresentati nei magazines generalisti eredi dei rotocalchi, quanto in riviste di settore, in libri, mostre e musei che valorizzeranno sempre di più il ruolo del fotografo come autore.
Una simile trasformazione del rotocalco è dovuta anche alla crescente diffusione dell’informazione televisiva. L’avvenimento simbolico che determina questo passaggio di consegne, consapevolmente o meno, consiste nella famosa diretta televisiva del 21 luglio 1969 con lo sbarco degli astronauti sulla luna.
I principali rotocalchi del tempo, come si mostrerà durante l’intervento, da “Epoca” a “L’Europeo”, pur dedicando molto spazio all’evento con propri inviati e servizi acquistati dalle agenzie, non possono che arrendersi davanti all’importanza delle incerte immagini televisive riprese dalla telecamera montata sul LEM; e pubblicarle con grande rilevanza – ma dopo che erano già state viste da milioni di spettatori – come le foto simbolo dell’avvenimento. Sempre di più negli anni Settanta le dimensioni dell’immagine si adegueranno nei reportage di cronaca a quelle dello schermo televisivo, perdendo l’impatto spettacolare del grande formato del rotocalco.
Nel rompere con la tradizione di austerità delle riviste culturali dei decenni precedenti, le testate partorite dai movimenti radicali degli anni Settanta sono protagoniste di una ricerca che investe la dimensione iconografica, con risultati che, come è noto, ne fanno un piatto goloso per gli esperti di grafica e di arti visive. L’uso della fotografia, anche a causa della povertà dei mezzi a disposizione, non fu sempre all’altezza della felicitas raggiunta dalle soluzioni grafiche. E tuttavia approdò a risultati interessanti e significativi sul piano della filosofia comunicativa. Fatta salva la valenza alternativa e antagonista conferita all’apparato delle immagini, che doveva distinguersi da quello della stampa cosiddetta “borghese”, i modelli sono molteplici e sposano l’identità di ciascuna testata, il suo target, le sue istanze, i suoi contenuti testuali, i suoi paradigmi interpretativi. E il quadro è tale da dare conto di una grande ricchezza: basta sfogliare testate come “L’Erba voglio”, “Ombre rosse”, “Controinformazione”, “Il Pane e le rose”, “Effe”, “Differenze”. Ne emergono modi diversi di intendere e usare la fotografia, con qualche tratto comune: il ruolo ancillare dell’immagine, chiamata a dimostrare, sostenere, rafforzare, o anche poeticamente commentare la parte scritta, in una parola il suo ruolo militante; la vis libertaria e talora lo sperimentalismo che presiedono alla scelta delle fotografie, in cui saltano tutti i parametri, gli ordini, le gerarchie, e si mescolano l’alta qualità estetica e l’immediatezza che nulla concede agli elementi formali, l’autorialità e il dilettantismo, il registro alto e quello basso; infine, l’ambizione di dare corpo anche attraverso la fotografia, anzi soprattutto attraverso la sua potenza evocatrice, a una sorta di nuovo universo antropologico, contrapposto a quello “borghese” e, nelle riviste giovanilistiche, a quello adulto, un universo a parte con i suoi codici e i suoi valori.
Fondato da Gianni Mazzocchi e Arrigo Benedetti nel 1945 e pubblicato dall’Editoriale Domus, nel 1953 “L’Europeo” passa alla Rizzoli, e rimane un settimanale fino al 1995, anno della chiusura. In seguito esce con sporadici numeri speciali per divenire trimestrale nel 2001-2002, bimestrale nel 2003-2007, mensile nel 2008-2013, anno della definitiva chiusura.
Nel periodo preso in esame il settimanale vive prima un periodo d’oro sotto la direzione di Tommaso Giglio (1967-1976), poi di crisi e di continui mutamenti d’identità e di direzione (Giovanni Valentini 1977-1978, Mario Pirani, 1979, Lamberto Sechi dal febbraio 1980).
Il contributo è stato condotto come una “passeggiata” tra le pagine dell’“Europeo” per capire in quale misura, con quale peso, con quale originalità rispetto ai generi giornalistici dominanti del reportage sociale e del ritratto, la fotografia di paesaggio sia presente nel settimanale.
L’analisi rivela che il paesaggio è decisamente un tema minore, e appare quasi sempre come elemento di contorno, secondo alcune tipologie ricorrenti e interessanti: paesaggio naturale come sfondo di automobili, moto, barche nei numerosi redazionali; come sfondo di ritratti di attrici e cantanti o altri personaggi intervistati (alle donne il paesaggio naturale, quasi sempre il mare, agli uomini il paesaggio urbano); come mondo meraviglioso che fa sognare il lettore illustrandogli le bellezze di paesi esotici e lontani, spesso in redazionali o rubriche di viaggi e turismo; come condizione eccezionale e drammatica dell’ambiente (guerre, terremoti, allagamenti, frane); come situazione altrettanto eccezionale quando si tratta di raccontare città considerate “speciali” (Parigi, Londra, New York). Sostanzialmente assente il paesaggio normale, legato alla vita quotidiana. Il paesaggio industriale che caratterizza il paese in quel decennio compare solo, e curiosamente, in redazionali a cura di associazioni industriali locali. Servizi interessanti sul degrado delle zone rurali, delle coste italiane e dei centri storici e sulla distruzione del paesaggio causata dall’industrializzazione selvaggia e dalla speculazione edilizia anche legata all’azione della mafia compaiono solo brevemente ma esemplarmente sotto la direzione di Giovanni Valentini che crea una serie di servizi speciali intitolati “Il Malpaese”.
La rappresentazione dei cantanti (lirici e leggeri) e dei musicisti sui rotocalchi generalisti degli anni Sessanta prosegue la strategia tradizionale di costruzione e celebrazione divistica: il protagonista riempie da solo la scena, mentre il racconto ne traccia le coordinate biografiche dalle origini fino alla massima popolarità. Le immagini enfatizzano l’eccezionalità del divo attraverso inquadrature emblematiche e ne attestano il successo ricorrendo a formule veridittive che generalmente associano il cantante (o il musicista) allo strumento, re-inscenando l’evento performativo. Più raramente cantanti e musicisti sono colti nel ruolo di protagonisti del pettegolezzo collettivo: in tal caso i rotocalchi usano le immagini per indagarne la vita privata e per supportare una tesi prefissata esplicitata dal contenuto verbale.
L’intervento ha indagato il cambiamento apportato dalle rock star che – a partire dalla metà degli anni Sessanta – giungono in Italia, rinnovando i gusti musicali del Paese. Se i periodici giovanili, da poco nati, avevano già abituato i lettori a familiarizzare sia con i cantanti e i gruppi internazionali, sia con apparati comunicativi più innovativi, liberi e “contaminati”, quelli a larga tiratura, benché generalmente impreparati a recepirne l’impatto, hanno nei fotografi i protagonisti di un cambiamento radicale dello sguardo. La rock star diventa inscindibilmente legata al suo pubblico e l’evento live costituisce il rito per eccellenza della consacrazione divistica.
Attraverso il confronto tra varie testate (“Epoca”, “L’Europeo”, “Tempo”, “Panorama”) sono state prese in esame le strategie di autenticazione delle maggiori rock star internazionali (dai Beatles ai Rolling Stones a Bob Dylan) e la loro incidenza sul panorama musicale italiano. Al tempo stesso è stato analizzato il processo di trasformazione dei fan, da pubblico giovanile – caratterizzato dalla condivisione di un “gusto” – a gruppo sociale legato a nuovi valori e stili di vita.
Negli anni Settanta, dopo lo sport, l’argomento cui il quotidiano “La Notte” dedica lo spazio maggiore è lo spettacolo. In particolare, si presta molta attenzione soprattutto al mondo del cinema. Notizie concernenti quest’ultimo mezzo di comunicazione e i suoi protagonisti non trovano infatti spazio soltanto in “Luci al neon”, la sezione del quotidiano dedicata espressamente allo spettacolo. Si possono trovare anche al centro della pagina “Dove andiamo stasera?”, nella sezione della cronaca milanese, in quella di cronaca generale e, sovente, addirittura in prima pagina. In particolare, quando si parla di cinema, la maggior parte delle notizie date su “La Notte” tende ad avere una natura scandalistica e o riguarda direttamente un divo o è ricondotta a esso tramite la fotografia che l’accompagna. In linea con quell’impiego massivo di immagini fotografiche che Ivano Granata mostra essere una peculiarità di questo quotidiano, su “La Notte” le notizie concernenti il cinema sono infatti spesso fornite nella forma di didascalie che accompagnano la fotografia di una star legata a qualche titolo con ciò di cui si dà conto.
La relazione ha offerto dapprima un breve resoconto di ciò, per prendere poi in esame le scelte operate in termini di tipologia di fotografie utilizzate, nonché il tipo di legami esistenti tra quanto in esse raffigurato e quanto scritto nelle didascalie che le accompagnano. È stato mostrato come sia rintracciabile un approccio unitario nell’impiego che su “La Notte” si è fatto della fotografia negli anni Settanta per dar conto di eventi riguardanti le star del cinema. Infine, attraverso un confronto tra le immagini effettivamente pubblicate e quelle, oggi preservate presso il Centro Apice, che sono state scattate per documentare gli eventi legati al mondo della settima arte, è stato messo in luce come nel pubblicarle queste ultime siano state “manipolate” al fine di ottenere ritratti divistici classici ma pervasi da un senso di naturalezza.
Erano oggetto di fotoreportage anche gli accadimenti epocali , come l’invasione della Cecoslovacchia o lo sbarco sulla luna; o le grandi tragedie nazionali, come la strage di Piazza Fontana e il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; o il tramonto di culture locali incalzate dalla “modernità”; e poi ancora il Festival del Parco Lambro raccontato da Toni Thorinbert e Giovanna Calvenzi, le occupazioni delle case nel quartiere romano di San Basilio colto dalla macchina di Tano D’Amico, i morti di mafia immortalati da Letizia Battaglia; e infine i grandi servizi da tutto il mondo di fotografi come Mario De Biasi e Sergio Del Grande per “Epoca”.
In Italia gli anni Settanta sono stati un periodo di profonde trasformazioni sociali e culturali, che sono rimaste a lungo schiacciate all’interno di una dimensione politica. Anzi, questa dimensione, che tendeva ad egemonizzare il discorso pubblico di quegli anni, ha finito per nascondere l’evoluzione sociale del paese fino al momento della sua “rivelazione” attraverso quel fenomeno di “ritorno al privato” che venne allora chiamato “riflusso”.
Obiettivo dell’intervento è leggere la trasformazione sociale e culturale del paese attraverso il prisma dei principali settimanali di attualità politica di quegli anni, “l’Espresso” e “Panorama”, a partire dal modo in cui essi utilizzavano l’immagine fotografica.
La fotografia sembra rivelare infatti una difficoltà di comprensione delle trasformazioni profonde della società. Da un lato, le scelte grafiche operate da entrambe le testate riducevano lo spazio a disposizione delle immagini, confermando così l’esistenza di una “crisi” del fotogiornalismo. Dall’altro, la stessa scelta delle immagini appare condizionata più da uno sguardo rivolto al passato che dalla ricerca delle trasformazioni in atto nella società.
E tuttavia, allo stesso tempo, i settimanali mostrano come quelle trasformazioni fossero già all’opera e stessero modificando in profondità il panorama socio-culturale: infatti quei comportamenti che verranno di lì a poco indicati come caratteristici del “riflusso”, e poi degli anni Ottanta, e in particolare il “trionfo del privato” e la fine di una stagione di impegno collettivo, erano in realtà già presenti almeno a partire dal 1978, ma in alcuni casi anche dagli anni precedenti.
This presentation explored photography/photojournalism in the popular tabloid press in Britain in the 1970s. To lay the foundations, a brief discourse introduced to the tabloid genre in Britain, particularly its innovative deployment of images in the Daily Mirror from 1903. Picture Post (1938-1957) is also of relevance in the development of a popular conduit for the populist photographic tradition in journalism.
The most successful British daily tabloid, the Daily Mirror was rivalled by the Sun’s rise under the ownership of Rupert Murdoch from 1969. This competitive dynamic drew in the Daily Mail as it too moved to a tabloid format in 1971. The authors therefore take as our sample the photographs in these three papers in the two weeks following the tabloidization of the Daily Mail on 3 May 1971. A brief content analysis will allow for an exploration of the ways in which these papers were utilizing photographs: as ‘illustration’, a decoration of the page, an aspect of page-design and layout; as adjuncts to stories of celebrities or other personalities in the news; as representations of ordinary people in extraordinary situations, ‘tabloid people’. In all these strategic deployments, the ‘social eye’ is still very much in force but deployed to different ideological ends to that of Hall’s reading of the Picture Post.
Theoretically the authors drew together the tabloid traditions of the British press with canonical observations on photography of writers such as Becker, Newton, Sonntag, Barthes and Hall, and considered how best to interpret the interplay of image and text on the page as a demonstration of multi-modal popular discourse.
Mario De Biasi (Belluno 1923-Milano 2013) è stato uno dei capisaldi della fotografia italiana, capace di passare da un registro formale e fotogiornalistico a uno più intimo e giocoso con cui ha esplorato senza sosta il mondo umano e della natura. Per circa un ventennio, a partire dal 1953, ha contribuito alle pagine di “Epoca”, raccontando non solo gli eventi che hanno segnato la storia dell’Europa, ma anche il profondo cambiamento sociale, architettonico e politico del Giappone negli Sessanta e Settanta ancora poco o per niente conosciuto: dai nuovi grattacieli ai capsula hotel dei grandi nomi dell’architettura contemporanea, ai volti dell’arte e della letteratura come il premio Nobel per la letteratura giapponese Yasunari Kawabata che fotografò intento nella calligrafa nel 1970, e il grande Yukio Mishima, patriota e letterato, che colse in un momento privato durante gli allenamenti fisici quotidiani nello stesso anno poco prima della sua morte per suicidio. Un’attività che è stata riconosciuta anche in Giappone nel 2011 con una monografica intitolata Mario De Biasi. Changing Japan 1950-1980 tenutasi presso il Japan Camera Museum di Tokyo come evento parte del programma culturale di “Italia in Giappone 2011” con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Tokyo.
La relazione ha affrontato il rapporto tra moda e fotografia, e in particolare la dimensione immateriale e comunicativa della moda che si avvicina attraverso questo media sia ai luoghi e ai linguaggi dell’arte contemporanea sia ai processi produttivi dell’industria culturale.
Il rapporto tra moda e fotografia è interessante anche perché in Italia questi due temi sono stati per molto tempo sottovalutati da parte della cultura ufficiale. Considerata la moda una semplice realtà artigianale industriale e commerciale che può ambire al massimo a diventare fatto di costume, la fotografia è un’arte applicata che, quando non è piegata a imperativi strumentali, può aspirare a una forma di documentazione sociale.
Le cose sono cominciate a cambiare proprio negli anni Settanta, che non a caso sono stati la rampa di lancio del made in Italy. A partire da quegli anni lo sguardo sulla moda si è fatto più ampio, più cosciente della sua ricca articolazione progettuale, produttiva, commerciale e di consumo. Quasi sempre, tuttavia, la natura complessa di questi processi è stata subordinata alla personalizzazione della figura dello stilista o al richiamo impersonale del marchio che hanno risucchiato all’interno della loro logica la pluralità creativa della moda.
Anche alla fotografia italiana di moda è capitato di rimanere vittima di alcuni preconcetti. La fotografia di moda è il frutto dell’attivo rapporto di collaborazione creativa che il fotografo riesce a stabilire con lo stilista e il marchio, come ancora è il risultato dell’incontro tra l’autore e le molte professionalità che fanno capo alle riviste di moda o alle agenzie pubblicitarie. Ma è anche il lavoro di un autore che riesce a trascendere l’abito e con le sue immagini a riassumere moda, stile, carattere del proprio tempo. Al lavoro del fotografo di moda, infatti, specialmente in Italia, non è stata riconosciuta l’autonomia espressiva capace di potenziare l’esito del processo creativo collettivo, oltre alla possibilità di far crescere se stesso e l’arte del fotografare.
Il decennio indagato, iniziato con il Sessantotto, è ricchissimo sotto molti aspetti: per gli eventi che lo attraversarono, per le trasformazioni profonde della società, per i suoi nuovi protagonisti – le donne e i giovani – , per le proteste politiche e i fermenti internazionali. Un momento di snodo, dunque, di metamorfosi, di crisi e cambiamento, e allo stesso tempo una fase fecondissima per la sperimentazione nei campi delle arti, della comunicazione visiva, dell’informazione e di quella che fu definita “controinformazione”. La stampa ne fu protagonista e testimone e interprete, anche attraverso l’immagine fotografica. Quotidiani, settimanali, stampa popolare, riviste culturali, riviste politiche, secondo prospettive e sguardi spesso diversi, trasmisero uno spaccato di quella realtà multiforme e in movimento: la cronaca, il terrorismo, la violenza politica, le proteste sindacali, le manifestazioni dei giovani, la nuova immagine della donna, le trasformazioni del paesaggio e le lotte per la difesa dell’ambiente, i nuovi modelli divistici e le star del rock; e poi epocali accadimenti, come l’invasione della Cecoslovacchia o lo sbarco sulla luna; o le grandi tragedie nazionali, come la strage di Piazza Fontana e il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; o il tramonto di culture locali incalzate dalla “modernità”; e poi ancora il Festival del Parco Lambro raccontato da Toni Thorinbert e Giovanna Calvenzi, le occupazioni delle case nel quartiere romano di San Basilio colto dalla macchina di Tano D’Amico, i morti di mafia immortalati da Letizia Battaglia; e infine i grandi servizi da tutto il mondo di fotografi come Mario De Biasi e Sergio Del Grande per “Epoca”.
Nello stesso momento si assiste a un cambiamento nella figura stessa del fotoreporter, in direzione di una sempre più spiccata e riconosciuta autorialità: una tendenza che, in quello stesso decennio, porta la fotografia dei reportage dai giornali ai libri monografici, alle mostre e alle collezioni dei musei.
Considerare Publifoto solo un’agenzia fotogiornalistica è riduttivo. Piuttosto un sistema complesso che produce, dagli anni Venti del Novecento, scambia, mette in circolazione immagini su diverse sedi nazionali, ma con una copertura internazionale. Fotografie funzionali a una circolazione allargata, icone dell’ufficialità spendibili nei contesti ideologici più differenti: quasi equivalente generale della comunicazione.
Gli anni Settanta per Publifoto sono anche l’inizio di una parabola discendente della funzione dell’archivio per l’erosione del mercato, per i tempi imposti dall’informazione televisiva, da modalità di narrazione della cronaca sempre più veloci e superficiali. A metà di quel decennio il CSAC dell’Università di Parma, guidato da Arturo Carlo Quintavalle e con la complicità di Lanfranco Colombo, inizia a raccogliere, per conservare e rendere disponibile alla ricerca, materiali degli archivi fotografici, tra cui Publifoto. Dalla sede milanese vengono ceduti prima stampe e negativi non più utilizzabili commercialmente, salvati dal macero, e poi via via settori più importanti: l’archivio Sempione (il lavoro per la RAI), l’intero archivio di cronaca sportiva, gli archivi di autori collegati all’agenzia (Cisventi, Costa, Pratelli, Argenta, Fioroni…) e, parallelamente, l’ archivio del ramo romano di Publifoto.
Milioni di negativi, stampe, immagini che hanno perso la funzione di narrazione “in diretta” entro i frames narrativi della cronaca rosa nera o sportiva, della comunicazione commerciale e politica per costituirsi archivio della rappresentazione di un territorio, di una vita nazionale. I singoli servizi che segmentano la storia reale in episodi di cronaca o in serie di notizie, una volta ricollocati nella visione complessa dell’archivio offrono – come vediamo in qualche recente caso di studio presso il CSAC – possibilità di analisi inattese.
L’immagine e l’immaginario di quasi novant’anni di storia rivelano poi l’impossibilità di una netta distinzione tra pratica “alta” della fotografia e produzione di consumo: la qualità altissima, l’intelligenza narrativa dei servizi, delle sequenze, sono ben più dello sfondo da cui emerge la fotografia “colta”.
Gli atti del convegno sono ora pubblicati nel volume Il fotogiornalismo negli anni settanta. Lotte, trasformazioni, conquiste, a cura di Raffaele De Berti e Irene Piazzoni, Milano, SilvanaEditoriale, 2020.