di Marie Louise Crippa
In una lettera del 1964, il giornalista e letterato Henri Furst scrisse: «Mi piacciono molto queste riviste farmaceutiche, che non hanno bisogno di essere vendute, anzi che non vengono poste in vendita, e appunto per questo, sfuggono sole alla volgarità del tempo, e ci rammentano che una élite esiste ancora». La rivista alla quale faceva riferimento Furst era «Lo Smeraldo», periodico di cultura e letteratura fondato da Giuseppe Carlo Sigurtà nel 1947 per celebrare il ventesimo anniversario della sua azienda farmaceutica. Se l’azienda ricercava «quei rimedi che vogliono ridare o mantenere la sanità ai corpi» la rivista avrebbe contribuito invece alla «necessità e splendore dei medicamenti dell’anima», pubblicando racconti e poesie inedite, offrendo recensioni ed approfondimenti riguardo non solo letteratura e pittura, ma anche teatro, cinema, musica e nuovi fenomeni culturali come il fumetto e la televisione. La direzione de «Lo Smeraldo», affidata prima ad Eugenio Bertuetti poi a Dario Cartago Scattaglia, coinvolse autori come Dino Buzzati, Eugenio Montale, Marino Moretti, Domenico Rea, Diego Valeri; affidò le copertine di ogni numero a pittori e grafici affermati; non trascurò argomenti di attualità socio-culturale esclusi dalle riviste letterarie tout-court.
A partire dal 1951, il giornale di Sigurtà pubblicò una rubrica dedicata al mondo dello spettacolo. Nel terzo numero di quell’anno comparve la firma di Sergio Pugliese – noto drammaturgo e dirigente radiofonico, futuro Direttore dell’Esercizio Tv – appena tornato da un lungo soggiorno negli Stati Uniti dove si era documentato sulle strategie comunicative e sulle programmazioni televisive d’oltreoceano per poi guidare la sperimentazione in Italia.
La testimonianza dell’esperto precedeva di qualche anno la grande diffusione del mezzo televisivo in Italia – che sarebbe avvenuta nel gennaio 1954 – e si rivelava premonitrice dei mutamenti sociali e culturali che il fenomeno avrebbe prodotto anche nel nostro Paese:
“Così come l’avvento dell’automobile, nei primi decenni del secolo, ha profondamente modificato non solo le abitudini di vita del medio cittadino americano, ma anche l’aspetto delle sue città, delle strade e di un’infinità di prodotti industriali, altrettanto minaccia di fare ora la televisione.”
Mentre in America la televisione aveva già raggiunto livelli di diffusione tali da fare concorrenza al cinema e da costituire nuovi investimenti, in Italia si stavano conducendo esperimenti tra lo scettiscismo degli intellettuali e le remore dei conservatori.
Nel suo intervento, Pugliese non scrisse un resoconto ingenuo e appassionato della sua esperienza americana, ma rifletté con lucidità sulle potenzialità economiche del nuovo mezzo e analizzò con precisione il palinsesto dei programmi trasmessi. L’esordio è significativo:
“Diciamo subito che, malgrado l’ampiezza dei mezzi a disposizione e la collaborazione dei più noti scrittori, attori, giornalisti, i programmi televisivi, così come sono attualmente concepiti, sarebbero ben lontani dall’accontentare le esigenze e i gusti del cittadino medio d’un qualsiasi paese d’Europa.”
L’origine di tale debolezza era imputabile alle agenzie pubblicitarie, prime finanziatrici del servizio, che non solo sottoponevano il pubblico americano a campagne commerciali pervasive ed esasperanti, ma condizionavano anche la durata delle trasmissioni travolgendone la natura:
“Ho visto recitare la Dame aux camélias e il Cirano di Bergerac in 45 minuti, compresi gli annunci pubblicitari che interrompevano ben sei o sette volte la commedia. Tutto viene trasformato, ridotto, tagliuzzato e volgarizzato per correre incontro al gusto delle masse più sprovvedute intellettualmente, ma più numerose.”
Tra i modelli di programmazione degni di attenzione, Pugliese annovera solo i notiziari e i quiz; dei primi, il critico apprezzava il costante aggiornamento, la precisione tecnica e l’abilità dei presentatori. I secondi – «manifestazione della vita collettiva negli Stati Uniti» – costituivano un interessante caso di studio sociologico, ma erano molto distanti dall’habitus dell’italiano medio nel Dopoguerra.
“Il pubblico americano è di facile contentatura, ride ed applaude con entusiasmo al minimo pretesto, ma ha anche bisogno di reazioni violente, di colpi duri, di sorprese sensazionali che incassa con incredibile facilità, anche se offendono quei principi – sia pure convenzionali – del lecito e dell’illecito che guidano le reazioni d’ogni platea in un paese europeo.”
Era evidente che l’Italia guardasse all’universo americano con grande meraviglia di fronte ai progressi tecnologici, ma con altrettanta apprensione per l’innegabile distanza culturale. La lunga esperienza radiofonica permetteva a Pugliese di valutare il nuovo fenomeno televisivo in merito non solo alle sue proprietà formali ma anche al potenziale effetto che avrebbe avuto sulle abitudini e sul gusto del pubblico nostrano. Il futuro direttore della Rai stava progettando un modello televisivo nel quale l’informazione avrebbe avuto largo spazio ed i programmi di intrattenimento avrebbero anteposto le ragioni pedagogiche a quelle sensazionalistiche amate in America.
Dopo tre anni, «Lo Smeraldo» pubblicò un articolo di Michele Serra sullo stato della tv italiana a pochi mesi dall’inizio delle trasmissioni (Michele Serra, Indici positivi della nostra TV, anno VIII numero 3, 30 maggio 1954). Il palinsesto pomeridiano era dedicato ad «argomenti istruttivi o mondani» per un pubblico giovane e femminile, mentre quello serale, pensato per accontentare tutta la famiglia, proponeva spettacoli di “varietà”, film e telefilm doppiati dalla televisione americana. In questo bilancio trovarono riscontro le precedenti considerazioni di Sergio Pugliese, dato che rispetto al modello americano la televisione italiana trasmetteva poche telecronache e di qualità ancora modesta, ma vantava una maggior cura artistica nell’allestimento degli spettacoli. L’Italia aveva infatti inaugurato la nuova era recuperando la tradizione teatrale; non a caso il sorgere della televisione coincise con quello del teleteatro (la prima trasmissione andata in onda il 3 gennaio 1954 fu l’atto unico di Carlo Goldoni L’Osteria della Posta) ed il primo Direttore fu lo stesso Sergio Pugliese.
Nel 1955, anche il critico teatrale Ludovico Zorzi scrisse per «Lo Smeraldo» un approfondimento sull’argomento, ripercorrendo con occhio analitico i risultati ottenuti dalla televisione italiana ed il rapporto tra il nuovo medium rispetto alle forme tradizionali di spettacolo (Ludovico Zorzi, Appunti sul teleteatro, anno IX numero 5, 30 settembre 1955). Secondo Zorzi la TV avrebbe potuto trarre ispirazione dal teatro molto più di quanto potesse fare dal cinema: «in quanto è sempre il dialogo a suggerire e a condizionare l’immagine e non, come nel cinema, l’immagine a suggerire e a condizionare il dialogo». Il critico rifletteva non solo sui limiti tecnici e formali, ma anche sulle diverse condizioni materiali e psicologiche con cui gli spettatori assistevano alla rappresentazione. La televisione infatti irrompeva nell’ambiente domestico annullando molte delle qualità estrinseche del teatro come la socialità e la suggestione collettiva, ma favorendo il processo di interiorizzazione dell’opera. Proprio quest’ultimo aspetto, infatti, incoraggiava la diffusione di racconti intimistici a svantaggio dei grandi classici. Zorzi propose una nuova formula di teleteatro basata non sulla riduzione televisiva degli spettacoli ma sulla ripresa diretta di questi, accompagnata dal commento di una voce esterna o dalla traduzione, nel caso di opere straniere. Il critico si appellava a registi, autori, sceneggiatori, attori e tecnici specializzati affinché sviluppassero un linguaggio televisivo originale, in grado di far includere il nuovo medium tra le arti dello spettacolo. Zorzi non è affetto dall’ottimismo propagandistico degli addetti al mestiere, né dal pessimismo di tanti intellettuali, scettici sulla qualità che i programmi avrebbero adottato per accontentare un pubblico tanto eterogeneo e in gran parte ancora analfabeta. Il tono di questi articoli riflette il temperamento della rivista che partecipava all’attualità culturale dell’Italia senza particolari ambizioni critiche ma perseguendo sempre un alto livello scientifico. «Lo Smeraldo» seguì infatti le peripezie della televisione italiana lungo gli anni Cinquanta con spirito cronachistico ma mai banale, testimoniando lo sviluppo di un fenomeno che avrebbe presto catalizzato l’interesse dell’opinione pubblica, tra facili entusiasmi e forti polemiche, grandi aspettative e tanti dubbi.
L’archivio della rivista «Lo Smeraldo» è stato salvato da uno dei suoi ultimi caporedattori, Achille Ruffilli, che l’ha poi donato al Centro Apice. L’epistolario conta circa 1600 lettere di centinaia di corrispondenti, molte delle quali dei maggiori scrittori italiani chiamati a collaborare alla rivista: . Altre 500 lettere costituiscono la corrispondenza tra Bertuetti e Cartago Scattaglia, che mantenne la carica di direttore fino all’improvvisa morte, in seguito alla quale la rivista chiuse con il numero 5 del dicembre 1965. Completa l’archivio la raccolta dei numeri della rivista.